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Sadhana - Filosofia

 

07/01/2022

 

 

Lo yoga di Patañjali

 

di Sara Pisano

 

 

 


 

Considerati il fondamento dello yoga come lo conosciamo oggi, i sūtra di Patañjali sono un filo che ci conduce alla conoscenza del dualismo e al superamento di esso tramite l'azione. Durante il rinascimento yogico del XX secolo, tutti i grandi maestri hanno dato la propria interpretazione dei sūtra (pensiamo a Iyengar, Yogananda, Vivekananda) ma scopo di questo testo è ricercare, oltre alle varie interpretazioni moderne, le linee guida della “filosofia yoga”, darśana dello yoga, di cui i sūtra di Patañjali sono il manifesto, scostandoci dalle successive riletture del 900.

Ricordiamo che per darśana si intendono i sistemi filosofici ortodossi dell'India sviluppati tramite la teoria della disputa che fa sì che le diverse correnti di pensiero debbano organizzarsi in precisi canoni e concetti metodologici.

Inerenti a questa lettura sono i darśana khya e yoga, i due sistemi dualisti, il cui scopo è riconoscere la dualità inconciliabile (natura-spirito, prakti-purua, movimento-immobilità) e superarla, creando una coscienza discriminativa nel soggetto, facendo tornare la natura al suo stato immanifesto. Mentre il khya dà una spiegazione puramente descrittiva, lo yoga propone un approccio pratico e attivo per uscire dalla dualità.

I testi di riferimento sono Yoga Philosophie di Georgie Gruetter, Il pensiero dell'India di Raffaele Torella e i Sūtra di Patañjali nella traduzione di Corrado Pensa, discussi con il Professore Saverio Marchignoli, durante il corso di Filosofie dell’India e dell’Asia orientale all’Università Alma Mater di Bologna. La letteratura sul tema è sconfinata, ho dovuto fare quindi una scelta contenutistica affidandomi a manuali scritti da maestri con cui ho studiato nel corso dei miei anni di formazione in campo yogico e antropologico.

Questo lavoro si concentra 1) sullo scopo degli Yoga Sūtra, 2) su cosa si intende per azione, 3) sulle maculazioni della mente, ovvero le afflizioni che ci impediscono di riconoscere il dualismo e superarlo, sugli aṅga o membra dello yoga come approccio anch'esso pratico per arrivare al fine ultimo dello yoga, 4) il samādhi (riconoscere e superare il dualismo) e 5) infine sui concetti di samādhi e kaivalya.

Figura 1. Manoscritto degli Yoga Sutra, secolo XIX. Nella fotografia sono stati evidenziati i commenti

 

(YS, I.2) Yogaścittavṛttinirodhaḥ

Lo yoga ha come scopo l'annullamento delle attività della mente, intesa dallo yoga darśana come citta, ovvero quello che nel sāṃkhya viene definito come insieme di buddhi, ahaṃkāra e manas (Torella, 2008, p.82), e mind-stuff nella traduzione di Vivekananda (Kulasrestha 2006, p.168). Citta è un concetto fondamentale dello yoga darśana; le tre parti della mente che la compongono sono elencate nell'ordine in cui si risvegliano dall'ignoranza secondo la filosofia sāṃkhya, quindi intelletto, senso dell'Io e mente, come scritto sopra con i termini sanscriti. Manas è anche traducibile come "sensorio comune" (Marchignoli 2016) o "senso interno" (Pensa 1962) che coordina e sovrintende ai dieci sensi, i cinque di percezione (Jñānendriya) e i cinque di azione (Karmendriya). Sempre riprendendo la filosofia sāṃkhya, l'acquietare le onde mentali significa riportare la prakŗti (natura) allo stato non manifesto, creare una coscienza discriminativa nel soggetto per liberarsi dal dolore del ciclo delle rinascite. Allora le ventitrè manifestazioni della prakṛti (intelletto, senso dell'io, coordinazione, organi di senso, organi di azione, elementi grossi e sottili) rientrano in essa e il puruṣa rimane isolato (YS, II.25; IV.34).

Questo isolamento è samādhi e ha quattro forme: conscio, inconscio, naturale, raggiunto tramite la fede (YS, I.17-I.22). Queste forme vengono poi raggruppate in sabija (YS, I.46) e nirbija (YS, I.51), con seme, senza seme, rispettivamente con e senza rimanenze karmiche.

 

(YS, II.1) Tapaḥsvādhyāyeśvarapraṇidhānāni kriyāyogaḥ

Kriyāyoga è lo yoga dell'azione, lo yoga è quindi, come accennato in precedenza, un percorso attivo di liberazione. Questa azione è fatta di tre componenti “ha come scopo una radicale trasformazione del sādhaka dall'esterno verso l'interno, che muove la sua consapevolezza dall'esterno verso l’interno, secondo il concetto di pratiprasava” (Gruetter, 2014, p.128). Come nel kriyāyoga anche gli aṅga, membra dello yoga (descritti in seguito), si muovono in pratiprasava, dall'esterno verso l’interno.

L'azione del kriyāyoga si compone di: tapas, fuoco dell'azione e della volontà ma anche austerità, svādhyāya, lo studio di sé stessi e delle scritture, Īśvarapraṇidhāna, devozione, rimettersi nelle mani del signore supremo Īśvara. Il concetto di Īśvara è nuovo rispetto al sāṃkhya e rende teista lo yoga darśana.

 

(YS, II.3) Avidyāsmitārāgadveṣābhiniveśāḥ pañca kleśāḥ

I kleśa rappresentano le grandi afflizioni, maculazioni mentali, che ci fanno avere una visione erronea della realtà. In quanto errori che continuiamo a reiterare nei vari cicli delle rinascite, contribuiscono alla creazione di depositi karmici, saṃskāra (YS, II.12). Queste afflizioni possono essere divise in intellettuali: l’ignoranza (avidyā) e l’ego (asmitā); emozionali: l’attaccamento (rāga) e l’odio (dveṣa) e infine istintive: l’attaccamento alla vita (abhiniveśa). L'ignoranza è proprio ciò che in primis ci impedisce di riconoscere la realtà per come è e ci trae in inganno, insieme al senso dell'Io che ci fa scambiare materia per spirito, prakṛti per puruṣa (Kulasrestha 2006, p.168).

Le afflizioni intellettuali scatenano un'involuzione della coscienza, il soggetto diventa quindi preda del corpo emozionale che è un'alternanza di desideri e repulsioni. Tra queste emozioni la più forte è la paura di perdere la propria vita materiale, che provoca un'involuzione ancora maggiore portando il soggetto ad essere preda di competitivismi e desiderio di materialità.

A causa dei kleśa tutto è “dolore” e questo richiama le “Quattro Nobili Verità” del buddhismo Theravada. Bisogna creare quindi una coscienza discriminativa nel soggetto, affinché le maculazioni e i mezzi di conoscenza (percezione diretta, inferenza, autorità, YS, I.7) vengano acquietati.

Figura 2. RIMYI, Pune. Patañjali il giorno del Guru Purnima

 

(YS, II.29) Yamaniyamāsanaprāṇāyāmapratyāhāradhāraṇādhyāna

samādhayo'ṣṭāvaṅgāni

Il sādhanā (insieme di mezzi di realizzazione) viene introdotto già nel primo pāda come un compromesso (YS, I.12) tra abhyāsa, pratica, e vairāgya, non attaccamento, distacco, che in un primo momento è definito come “dominio” sulla propria “sete” (i concetti di sete e dolore sono di nuovo spunti riconducibili al buddhismo Theravada, v. “La messa in moto della ruota del dhamma”, Bori, Marchignoli, 2015, pp.114-118) e in seguito diventa il distacco della prakṛti dal puruṣa.

Nel secondo pāda, sādhanā pāda appunto, Patañjali prosegue prescrivendo un percorso in otto punti (āṣṭāṅga), non dissimile dall'ottuplice sentiero del Buddhismo del Śākyamuni (Torella, 2008, p.78). Precetti etici o interdizioni (yama), seguiti da precetti morali o obblighi (niyama), retta postura (āsana), controllo del respiro (prāṇāyāma), ritrazione dei sensi verso l'interno (pratyāhāra), concentrazione (dhāraṇa) e assorbimento meditativo (dhyāna) che culminano nello stato in cui la meditazione, l'oggetto, il soggetto meditante diventano tutt'uno (samādhi). Il primo concetto, imprescindibile, è ahiṃsā (non violenza) senza il quale lo Yogin non può essere definito tale.

Le ultime tre membra, aṅga, vengono finite di descrivere nel terzo pāda (Vibhūti Pāda) dedicato ai poteri sovrannaturali degli Yogin, poteri ai quali non ci si deve abbandonare per non essere sviati dallo scopo ultimo, e non scambiare la visione del sattva (il guṇa bianco) per il puruṣa. L'insieme di dhāraṇa, dhyāna e samādhi vengono descritti da Patañjali come saṃyama, la disciplina (III.4).

 

(YS, IV.34) Puruṣārthaśūnyānāṁ guṇānāṁ pratiprasavaḥ kaivalyaṁ svarūpapratiṣṭhā vā citiśaktiriti

Si conclude così l'ultimo pāda, con il raggiungimento del fine ultimo dello yoga. Kaivalya è un sinonimo di samādhi, ma il samādhi è sabija, con frutto, dove per frutto si intendono ancora i movimenti karmici che vanno per inerzia come una ruota che necessita del suo tempo per finire il proprio movimento, mentre il kaivalya è nirbija, senza frutto, l'isolamento del puruṣa, nuvola di virtù (YS, IV.29). Il termine kaivalya significa proprio “isolamento”; la cessazione delle maculazioni della mente, vṛtti e saṃskāra, l'acquietarsi dei guṇa (IV.7) ovvero il ritorno della natura al suo stato non manifesto in cui prakṛti, osservata da puruṣa, smette di danzare. A quel punto lo Yogin è liberato dalla sofferenza della ruota del sasāra.


Bibliografia

  • Pier Cesare Bori, Per un percorso etico tra culture, Carocci Editore, 2015.

  • Georgie Gruetter, Yoga Philosophie, Yoga Mitte Buecher, 2014.

  • Mahendra Kulasrestha, Learning Rajayoga from Vivekananda, Lotus choices, 2016.

  • Patañjali / Gli aforismi sullo yoga, con il commento di Vyāsa (introduzione, traduzione e note di Corrado Pensa), Bollati Boringhieri Editore, 1968.

  • Raffaele Torella, Il pensiero dell'India, Carocci Editore, 2008.

  • www.sanskrit-trikashaivism.com/en/patanjali-yoga-sutras/629

 

Referenze Immagini

Wikipedia, Archivio LOY


 

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