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Sadhana - Filosofia

 

08/11/21

Gli Yoga Sūtra di Patañjali

 

di Riccardo Spedicato e Giulia Kado

 

 

 

 

 

 

 


 

Gli Yoga Sūtra rappresentano uno dei più importanti trattati di filosofia nella tradizione indiana e Patañjali è l’autore. Si tratta di un testo classico di grandissimo valore per la cultura orientale e, dunque, universale.
Insieme alla Bhagavad Gīta è certamente l’opera che ha ottenuto un forte interesse anche oltre i confini del continente indiano. Varie sono le cause che hanno contribuito a tale fortuna e, indubbiamente, il mistero che avvolge la figura di Patañjali è tra queste. Storicamente si racconta che sia vissuto tra il 500 e il 200 a. C. ma tutto quello che conosciamo di questo saggio dello yoga è leggenda.
Secondo la tradizione ha scelto di scrivere su tre soggetti principali: grammatica, medicina e yoga, aspetti questi che coprono tutti gli ambiti della vita e che contengono l’essenza della conoscenza umana.


figura 1. Patañjali reincarnazione di Ādi Śeṣa, in un acquerello del XIX secolo

Il quadro storico in cui si inserisce e lo stile letterario che caratterizza il testo diventano tasselli rilevanti per la comprensione di come l’opera abbia goduto di una così importante diffusione. È il periodo post vedico (l’era dei Veda vedrà la sua fine con le ultime Upaniṣad) e la cultura buddista assume sempre maggiore prestigio. Le tradizioni orali e l’utilizzo della memoria come mezzo unico per tramandarne la conoscenza si materializzano ora sotto forma di testi scritti primari, assumendo quindi considerevole resistenza sul correre del tempo.
La forma espressiva degli Yoga Sūtra è quella utilizzata dalle scuole filosofiche dell’India antica (che ritroviamo infatti nei Vedanta SūtraNyaya Sūtra e altri) e il termine sūtra significa letteralmente “filo”. Si riferisce essenzialmente ad una asserzione filosofica stringata e precisa, in cui un contenuto informativo di grandissima importanza è racchiuso in un numero minimo di parole. Si tratta di aforismi di letteratura filosofica o scientifica, destinati quindi agli occhi di un pubblico prevalentemente tecnico.
Composti per la trasmissione orale e l’apprendimento mnemonico, gli Yoga Sūtra e le tradizioni dei sūtra in generale, permettono allo studioso di “tessere” quindi nella memoria gli ingredienti chiave di un più esteso insieme di insegnamenti, nello specifico caso di Patañjali, gli insegnamenti sullo yoga.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli, chiamati pāda (parte o quarto) che racchiudono 196 sūtra in totale. Ciascun capitolo è costituito da un numero differente di sūtra, rispettivamente: 51 per il primo pāda (samādhi pada); 55 per il secondo (sādhana pāda); 55 compongono il terzo pāda (vibhūti pāda) e l' ultimo, il più corto, è costituito solo da 34 sūtra (kaivalya pāda).

Partendo dalla definizione di Patañjali nel secondo sūtra (I.2), yoga è la cessazione delle attività o modificazioni della mente al fine di conseguire una indipendenza assoluta (kaivalya). Per arrivare a questo nobile scopo espone, quindi, un metodo costituito da otto yogāṅga, ovverosia stadi o fattori ausiliari per la realizzazione. Questi otto aṅga sono: yama, astensioni, misure morali; niyama, osservanze etiche; āsana, posizione; prāṇāyāma, controllo del respiro; pratyāhāra, ritrazione dei sensi; dhāraṇā, concentrazione; dhyāna, meditazione; samādhi, assorbimento meditativo completo. Gli ultimi tre aṅga sono essenzialmente gradi diversi di intensità della concentrazione e culminano nella realizzazione consapevole della sua propria natura, asamprajñāta samādhi.


Quello di Patañjali si definisce quindi un sistema ottuplice o aṣṭangayoga. Nella tradizione filosofica indiana, tuttavia, quello ottuplice dei Patañjaliyogasūtra non è l’unico sistema esistente. Ci sono anche altri modelli e sistemi con un numero minore di yogāṅga. Spesso, infatti, le misure morali (yama) e le osservanze etiche (niyama) erano date per ovvie e già evidenti da coloro i quali si accingevano a percorrere questo particolare cammino verso la realizzazione del Sè. Nei testi śaiva, come in molte opere del buddhismo Vajrayāna, si ritrova un metodo sestuplice, basato su sei fattori ausiliari (ṣadaṅga). L’opera più importante è il Gorakṣa Śataka, opera attribuita al saggio Gorakhnāth, vissuto tra il IX e il XII secolo; i sei aṅga sono āsanaprāṇāyāmapratyāhāradhāraṇādhyānasamādhi. In un testo del XIV secolo, lo Śārṅgadharapaddhati, si ritrova invece uno schema quadripartito (āsanaprāṇāyāmadhyānasamādhi); nel testo religioso indù dedicato al dio Vāyu, il Vāyu Purāṇa, si riconduce la pratica yoga a cinque aṅga (prāṇāyāmadhyānapratyāhāradhāraṇāsmaraṇa “memoria”). Infine, il manuale di yoga Gheraṇḍasaṁhitā, un testo probabilmente del XVII secolo, descrive un sistema settuplice o saptāṅga (ṡatkarma, “pulizia interna ed esterna del corpo”, āsana, mudra, pratyāhāra, prāṇāyāmadhyāna, samādhi).

Nel contesto dello yoga, lo schema ottuplice di gran lunga più influente è quello dell’aṣṭangayoga indicato negli Yoga Sūtra di Patañjali e nelle numerose opere che replicano il suo schema.

Samādhi pāda (sull’immersione meditativa)

Il primo quarto (pāda) è costituito da 51 sūtra ed introduce in maniera diretta il soggetto dell’opera.

 I.1 atha yogānuśāsanam
Ora, [sono presentati] gli insegnamenti dello yoga

È pratica comune per gli autori di lavori filosofici cominciare annunciando la natura specifica dell’argomento, differenziandosi dalle altre correnti di pensiero filosofico o sistemi di conoscenza. La parola atha (ora) viene considerata in un certo senso sacra e di buon auspicio nell’apertura del testo. Talvolta, invece, è interpretata per differenziare il testo da altre opere precedenti in modo gerarchico o fazioso, arrivando quindi a definire finalmente il raggiungimento della verità sui temi esposti.

I.2 yogaś citta-vṛtti-nirodhaḥ
Lo yoga è la cessazione degli stati mutevoli della mente

Da subito Patañjali formula quella che è la definizione di yoga, ovvero l’arresto definitivo degli stati fluttuanti della mente (citta-vṛtti). Descrive dettagliatamente tali stati, propri del plesso delle cognizioni. Si riferisce a qualsiasi mutazione o attività della mente, qualsiasi sequenza di pensieri, idee, immagini mentali o qualsiasi funzione cognitiva prodotta da mente, intelletto o ego. 

Queste immagini mentali, stati, formazioni del citta che si muovono continuamente sono definite vṛtti. Se rappresentassimo citta come il mare, le vṛtti sarebbero le onde, le forme specifiche che assume.

 

figura 2. Le onde del mare vengono paragonate alle fluttuazioni della mente

 


I.3 tadā draṣṭuḥ svarūpe ‘vasthānam
Quando questo è avvenuto, il vedente risiede nella sua vera natura

Una volta liberata dall’associazione con gli stati mentali, l’anima (puruṣa) rimane pura coscienza, cosciente solo di se stessa. Può dimorare nella sua propria natura, lo stato più alto di coscienza pura, asamprajñāta samādhi, svuotandosi anche della conoscenza stessa. Patañjali qui identifica l’anima (puruṣa) come draṣṭuḥ, ovverosia il vedente. Per “vedere” non si intende la facoltà visiva grossolana che si manifesta con l’organo della vista, bensì come metafora della coscienza, che “vede” nel senso di dimostrare consapevolezza. La caratteristica dell’anima è pura coscienza, come la caratteristica del sole è -ed è sempre stata- quella di splendere. In maniera analoga, essere consapevoli e consci è la caratteristica intrinseca di puruṣa.

I.4 vṛtti-sārūpyam itaratra
Altrimenti, le altre volte [il vedente] è immerso nei mutevoli stati [della mente]

La mente, che è al servizio dell’anima, presenta gli oggetti dell’esperienza sotto forma di vṛtti. Quando gli stati della mente sempre mutevoli sono presenti all’anima, questa diviene conscia ma è erroneamente identificata con essi da citta, e ne viene pertanto influenzata. Questa identificazione erronea o ignoranza (avidya) è la causa della schiavitù dell’anima all’interno della realtà fenomenica.

I.5 vṛttayaḥ pañcatayyaḥ kliṣṭākliṣṭāḥ
Ci sono cinque tipi di stati mentali mutevoli, e questi sono nocivi o non nocivi [per la pratica dello yoga]

Gli stati della mente, dunque, sono intesi come forma di “interferenza” cognitiva in senso lato, portatori di valenze sia condizionanti sia emancipanti, essendo per questo talvolta ausilio e talvolta ostacolo o inibizione.

Gli stati mutevoli della mente, le vritti o vorticosità, vengono declinati secondo Patañjali (YS, I.5) in senso afflittivo (kliṣṭa ovvero prodotti dai kleśāḥ), quindi nocivo per l’obiettivo dello yoga, oppure in senso non afflittivo per l’obiettivo dello yoga (akliṣṭa). Essi sono: conoscenza corretta (pramāṇa), errore (viparyaya), immaginazione (vikalpa), sonno profondo (nidrā) e memoria (smṛti). Secondo la tradizione yoga, tutti gli stati mentali di cui si può fare esperienza possono essere interpretati come manifestazioni (o sottotipo) di una di queste cinque categorie essenziali. Dopo aver catalogato e descritto in modo preciso e dettagliato tutti i tipi di vorticosità proprie del plesso delle cognizioni, l’autore mostra come riuscire a controllarle.

 

figura 3. Pune, RIMYI. Abhijata Iyengar si inchina a Patañjali (Guru Purnima, 2010)


 

I. 12 abhyāsa-vairāgyābhyāṁ tan-nirodhaḥ
[Gli stati mentali vṛtti] sono fermati con la pratica e il distacco

Patañjali ora volge l’attenzione a nirodha, il controllo e l’arresto definitivo degli effetti di queste vorticosità. Questo è possibile attraverso abhyāsa, la pratica, una continua reiterazione di quella che il saggio definisce viveka (“retta visione”, una conoscenza discriminata) e vairāgya, il distacco o rinuncia.

I.13 tatra sthitau yatno ‘bhyāsaḥ
Di questi, la pratica è lo sforzo a essere focalizzati nel concentrare la mente

Quando la mente si è liberata dai suoi stati mutevoli si focalizza in un flusso tranquillo. La pratica è lo sforzo nel fissare questo stato. Rimanda, quindi alla necessità di sostare con fermezza nella condizione successiva, all’annunciarsi dell’arresto degli effetti delle vṛtti.

I.14 sa tu dīrgha-kāla-nairantarya-satkārāsevito dṛḍha-bhūmiḥ

La pratica diventa stabile quando è stata coltivata senza interruzione e con devozione per un periodo prolungato. Eseguita senza alcuna interruzione (nairantarya) la pratica diventa irremovibile e “stabile”. Inoltre, deve essere prolungata nel tempo (dīrgha-kāla), con rispetto e grande devozione (satkāra-asevitah). Solo così si raggiunge lo scopo ultimo del metodo, la realizzazione del sé più profondo. Patañjali identifica ancora una difficoltà aggiuntiva. Più precisamente, assieme alle vṛtti, indica il manifestarsi di nove “impedimenti” (ostacoli) alla realizzazione dell’obiettivo dello yoga. Questi impedimenti (antarāyāḥ) sono così elencati (YS, I.30): malattia (vyādhi), inerzia (styāna), dubbio (saṁśaya), negligenza (pramāda), pigrizia (ālasya), assenza di distacco (avirati), percezione erronea (bhrānti darśana), non realizzare le basi per la concentrazione (alabdhabhūmikatva), instabilità (anavasthitatvāni). Queste sono le distrazioni per la mente, intromissioni che generano una frattura nella pratica e devono essere superate.

Spiega quindi come raggiungere il samādhi, lo stato più elevato di raffinamento cognitivo, che conduce lo yogi al di là dell’esistenza individuale. L’autore riporta una duplice classificazione del samādhi: il primo (YS, I.17), ovvero il samādhi con cognizione (samprajñāta samādhi), è accompagnato da tutti i quattro stati mentali (o solo da alcuni di essi): immersione con consapevolezza fisica (vitarka), immersione con consapevolezza sottile (vicāra), immersione con gioia pura (ānanda), senso dell’io-sono (asmitā). Questo tipo di samādhi è definito “con seme” (sabīja), in ragione delle tracce karmiche che si originano da esso.
Il samādhi senza cognizione (asamprajñāta samādhi) (YS, I.18) è caratterizzato dalla contemplazione della cessazione stessa, che viene definita come la pratica più elevata di distacco (vairāgya). Libero da un sostegno meditativo o da un oggetto di concentrazione, viene chiamato “samādhi senza seme” (nirbīja) perché non produce ulteriori tracce karmiche.

 

Sādhana  pāda  (sulla pratica)

Il secondo quarto è costituito da 55 sūtra e Patañjali presenta un metodo pratico per accedere alla cessazione degli stati mutevoli della mente (citta-vṛtti-nirodhah). Il filosofo introduce una meticolosa strategia di esecuzione, volta al conseguimento di un traguardo ben preciso. Infatti, il contenuto di questo secondo pāda volge alla spiegazione del “procedimento” con cui si possono eludere le afflizioni (kleśāḥ) ed estinguere il dolore (duḥkha) così da raggiungere la meta dell’indipendenza assoluta (kaivalya).

Patañjali, nel primo sūtra del capitolo (YS, II.1), si rivolge a coloro i quali non hanno ancora una mente stabile e suggerisce la pratica di un metodo più orientato all’azione, chiamato kriyā yoga. 

Questo definisce una serie di condizioni preliminari, almeno dal punto di vista logico del testo, che consentano l’attenuazione delle afflizioni (YS, II.2) originate dall’ignoranza (avidya). Il kriyā yoga consiste in autodisciplina e controllo dei sensi (tapas), studio dei testi (svadhyaya) e devozione a Dio (Isvara-pranidhana).

II.3 avidyāsmitā-rāga-dveṣābhiniveśāḥ kleśāḥ
Le afflizioni [al samādhi] sono l’ignoranza, l’ego, l’attaccamento, l’avversione e la paura della morte

Sono qui nominate e, nei sūtra successivi, descritte, le afflizioni che impediscono al praticante il raggiungimento del samādhi, ovvero “alla meditazione profonda e suprema devozione” (B.K.S Iyengar).

Patañjali individua cinque kleśāḥ, o sofferenze, afflizioni, anche definiti intralci che disturbano l’equilibrio della coscienza. Il primo di questi è avidya che dà origine a tutti gli altri kleśāḥ. È un termine davvero importante per il nostro autore. Viene definito come il campo in cui tutte le sofferenze vengono generate, crescono e da questo si nutrono. Quando l’ignoranza è rimossa gli altri kleśāḥ scompaiono. Il significato di avidya va compreso nel senso -a privativo di vidya (conoscenza discriminante, ovvero saggezza e discernimento sottili). Non solo quindi il non essere in possesso di conoscenze specifiche o quantità di saperi insufficienti, ma quella disposizione spontanea a “non vedere come stanno le cose”.
Questo introduce subito il secondo impedimento, asmitā (l’ego). Quando il soggetto dotato di facoltà di visione (“io sono il vedente” oppure “io sono il facente”) sviluppa una relazione con la realtà dei fenomeni esterni genera un contatto, una relazione (samyoga). Si crea una congiunzione illusoria tra colui che sta vedendo e ciò che viene visto (YS, II.17-22).
L’attaccamento (rāga), il terzo degli impedimenti descritti, è legato alla memoria di un’esperienza di piacere che si desidera riprodurre nel presente o protrarre nel futuro. Mentre dveṣa, il quarto, è l’avversione; sensazione di rabbia, frustrazione, causate dal ricordo del dolore passato. L’ultimo ostacolo è abhiniveśah, ossia l’attaccamento alla vita, la tendenza innata alla paura della morte. Tutti gli esseri viventi nascono con questa paura, perfino il saggio ne è condizionato. Fa pensare al ricordo e all’esperienza delle morti vissute nelle vite precedenti.
Per tutti questi motivi, Patañjali definisce un metodo (e le sue caratteristiche) come strumento utile al raggiungimento della liberazione.

II.29 yama-niyamāsana-prāṇāyāma-pratyāhāra-dhāraṇā-dhyāna-samādhayo ‘ṣṭāv aṅgāni

Gli otto aṅga sono astensioni, prescrizioni, posizioni, controllo del respiro, ritiro dei sensi, concentrazione, meditazione e assorbimento.

L’autore illustra dettagliatamente gli otto stadi per giungere alla realizzazione. Gli yama (astensioni) sono cinque: non violenza, veridicità, trattenersi dal rubare, celibato e rinuncia ai beni. Sono sempre validi, e mai esonerati da essi né per ragioni di classe né di luogo, tempo o circostanza. Sono universali (YS, II.31). I niyama (prescrizioni), anch’essi cinque: pulizia, appagamento, austerità, studio (delle scritture) e devozione a Dio. Questi ultimi tre corrispondono al kriyā yoga. Tali regole e osservanze sono in realtà molto più antiche dello stesso Patañjaliyogasūtra e diventano le vie imprescindibili per iniziarsi al metodo.
Āsana (posizione) è il terzo fattore ausiliare ed è inteso come un modo di stare seduti necessario per padroneggiare lo yoga. Bisognerà attendere la composizione di testi sanscriti successivi (sull’hathayoga nella prima metà del secondo millennio d.C.) per trovare una descrizione sistematica di āsana yogici più complessi rispetto alle posizioni sedute descritte nei testi più antichi. Adottare la postura è un prerequisito fondamentale per il controllo yogico del respiro e della meditazione.

 

figura 4. BKS Iyengar esegue kandāsana


 

II.46 sthira-sukham āsanam

La posizione dovrebbe essere stabile e confortevole

Nel testo si dedicano soltanto tre aforismi per la descrizione degli āsana, ma questo non significa che siano poco rilevanti. Il termine āsana significa posizione del corpo quando coinvolge la mente e lo spirito. L’esercizio delle astensioni e prescrizioni, descritte precedentemente, permette di esperire un inedito e nuovo modo di “stare fermi”, distanti ed estranei alle tensioni dell’esperienza sensibile e alle distrazioni. Quindi, avendo ben osservato le richieste dei primi due aṅga del metodo, quel che prima risultava disagevole e scomodo ora appare confortevole (sukham) e stabile (sthira).
Attraverso l’affinarsi dei movimenti, l’intelligenza si manifesta nella pratica degli āsana in intenzioni mentali che si traducono in azioni fisiche di concentrazione della mente sul proprio corpo.  

Il fine non è certo quello del “sostare” in quanto tale, ma quello di esperire una nuova stabilità della cognizione, ovvero il venir meno dell’immediatezza delle risposte del corpo e della mente date dagli stimoli, esterni o interni che siano. 

Gli āsana, eseguiti sempre con spirito nuovo e fresco, consentono alla mente di esercitare un controllo sul corpo. Questo controllo è visto come pratica mentale che induce stabilità del corpo stesso e consente alla mente di soffermarsi sul corpo anziché vagare attraverso le sue vorticosità.

 II. 47 prayatna-śaithilyānanta-samāpattibhyām
[La posizione dovrebbe essere realizzata] con il rilassamento dello sforzo e l’assorbimento nell’infinito

La perfezione nell’āsana è raggiunta quando lo sforzo per eseguirla diventa nullo (prayatna) e l’essere infinito dentro di noi viene raggiunto. B.K.S. Iyengar ha insegnato che nello yoga “la perfezione dell'āsana deve essere ottenuta attraverso la perseveranza” e il lavoro. Inizialmente senza la forza di volontà non è possibile andare oltre le vorticosità e i nove impedimenti. “Il rilassamento dello sforzo” si conquista con il vigore e la perseveranza della pratica dell’āsana. Poiché la nostra mente viene assorbita dall’āsana non è né proiettata verso il futuro né fissata sul passato ma è “assorbita nell’infinito” presente. Con la pratica dell’āsana il corpo percepisce una sensazione di non esistenza come in uno spazio infinito. La mente, quindi, è diretta verso la meditazione senza le distrazioni o i disturbi del corpo.

II.48 tato dvandvānabhighātaḥ
In questo modo non si è afflitti dalle dualità degli opposti

La dualità degli opposti si riferisce concretamente alle sensazioni corporee, come il caldo e il freddo, che vengono meno man mano che si è in grado di padroneggiare l’āsana. L’espressione si riferisce quindi anche a uno stato di beatitudine trascendentale nel quale la mente del sadhaka, durante la pratica, perde la percezione della propria identità. Si viene guidati oltre le sensazioni fisiche come la fame e la sete (Bhagavadgīta, VI.7; XII.18). Una volta superata la dualità degli opposti, la mente può abbandonare la ricerca esterna per dirigersi alla meditazione, senza intralcio.

Prima di arrivare alla meditazione, Patañjali descrive la pratica del prāṇāyāma e del pratyāhāra che possono iniziare soltanto dopo aver raggiunto la perfezione negli āsana.
Il prāṇāyāma (controllo del respiro vitale, YS, II.49) che costituisce un aspetto centrale della pratica dello yoga, non è inteso come un metodo facile per padroneggiare lo yoga. Viene spesso equiparato al tapas, come espiazione e purificazione. Pratyāhāra è la ritrazione dei sensi di percezione (YS, II.54) dagli oggetti esterni. È una fase determinante nel passaggio dalle pratiche esterne a quelle interne. Se viene considerata la sua finalità, ovvero distogliere i sensi dai loro oggetti, la ritrazione è un aspetto decisivo per la realizzazione dello yoga

L’autore quindi offre un preciso numero di princìpi per maturare il controllo sulla realtà esterna: sul corpo mediante āsana, sul respiro per mezzo dello studio del prāṇāyāma e infine i sui sensi (pratyāhāra).


Gli ultimi tre aṅga, descritti nel terzo capitolo del testo, si contraddistinguono dai primi cinque in quanto definiscono le pratiche dei fattori interni e costituiscono quello che Patañjali definisce saṃyama (YS, III.4). Questo consente di vivere nella spontaneità della natura dello yoga e conferisce poteri soprannaturali, siddhi, che si concretizzano con la pratica e confluiscono nella liberazione.

 

Vibhūti -pāda  (sui Poteri mistici)

Il terzo quarto è costituito da 55 sūtra e si apre con la spiegazione degli ultimi tre aṅga.
Dhāraṇā (concentrazione) è la focalizzazione della mente. Patañjali lo descrive all’inizio del terzo pāda come l’atto di fissare la mente in un luogo (YS, II.1), senza tuttavia specificare quale; permettendo, in un certo senso, un margine di scelta.

Dhyāna, settimo e penultimo fattore ausiliare, è la meditazione: intesa come sviluppo di stati mentali e ontologici avanzati, dhyāna segue la concentrazione e precede il samādhi . Si definisce come il flusso continuo dell’assorbimento su un unico punto sviluppato con la concentrazione (YS, III.2).
Per questi motivi, piuttosto che considerare queste come pratiche isolate e distinte, la concentrazione, la meditazione e il samādhi  costituiscono fasi di sviluppo di un processo unico.
Il samādhi è l’ultimo elemento nella triade dei tre fattori ausiliari interni (saṃyama). In questo contesto il samādhi è uno sviluppo successivo della fase di meditazione in cui l’oggetto di meditazione appare “come fosse libero dalla sua propria forma”. Questo culmina nell’onniscienza e nella liberazione finale kaivalya.


 

figura 5. Statuina moderna di Patañjali


Kaivalya pāda  (sull’Indipendenza assoluta)

Questo rappresenta l’ultimo quarto ed è il più breve, composto da 34 sūtra. Il capitolo finale che descrive lo stadio ultimo dello yoga, definito come liberazione (kaivalya). Dopo tutte le varie precisazioni dialettiche, l’autore chiarisce i contorni di questa peculiare condizione, in quanto scaturita dall’osservanza degli aṅga del metodo. L’isolamento si realizza quando l’intelletto e il sé sono egualmente puri, e i semi dell’afflizione sono bruciati, come se l’intelletto possedesse la stessa purezza del sé. A quel punto c’è la purezza che consiste nell’assenza dell’esperienza (erroneamente) attribuita al sé. Dopo il conseguimento dei poteri e successivamente agli effetti del samādhi, ora sorge la conoscenza. Si vede con chiarezza la distinzione (tra la mente e l’anima) e cessa la riflessione sulla natura del sé (YS, IV.25). Si sviluppa una conoscenza che nasce dalla discriminazione di questa distinzione, una conoscenza discriminata (viveka) che dirige alla liberazione. Viveka distrugge l’ignoranza (YS, II.26) e determina kaivalya, l’indipendenza assoluta.
Grazie alla conoscenza, cessa la comprensione errata, e quando questa è cessata non ci sono ulteriori afflizioni. Viene meno anche la fruizione del karma. Questo è l’isolamento del Sé. Allora il Sé risiede e riflette esclusivamente la sua autentica forma propria.


 

 

Bibliografia

Bhagavadgīta, Saggio introduttivo, commento e note di Sarvepalli Radhakrishnam, Roma, Ubaldini, 1964

Edwin F. Bryant, Gli yoga sūtra di Patañjali, Edizione italiana a cura di Gabriella Giubilaro, Edizioni Mediterranee, Roma, 2019

B.K.S. Iyengar, Commento agli yoga sūtra di Patañjali,  Edizioni Mediterranee, Roma, 2010

James Mallison, Mark Singelton, Le radici dello Yoga, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2019

Federico Squarcini, Patañjali Yogasūtra, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2015


 

Referenze Immagini

Wikipedia; Leeber (Flickr.com); Emanuela Zanda


 


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